Se uno non sapesse che Matthew Barney è stato campione di rugby, che ha un gran fisico dall’aspetto decisamente sano (ha fatto anche il modello), facilmente si sarebbe indotti a pensare che agisce sotto lsd, tanto il suo mondo visivo è fantastico, debordante, irrefrenabile. Una volta tanto, insomma, l’aggettivo visionario, che molto spesso e senza motivo si spende a proposito di artisti contemporanei, qui risulta assolutamente pertinente. E invece Barney, artista americano acclamato internazionalmente, che al talento e alla fama unisce anche il dato molto cool di aver sposato un’altra celebrità, ovvero la cantante Bjork, non solo non fa uso di droghe ma pare essere un tipo schivo, timido addirittura, che nutre e segue i suoi deliri onirici nella sua testa e basta.
Se ne sono accorti recentemente a Torino, dove Barney è arrivato su invito della Fondazione Merz per partecipare a un seminario con gli studenti dell’Accademia Albertina e aun convegno sulla filosofia dell’arte con Arthur C. Danto, eminenza grigia della materia, e dove ha allestito una mostra che per la prima volta dà l’occasione di vedere tutti insieme i film che l’hanno fatto conoscere al pubblico dell’arte: i cinque episodi del “Cremaster” e i dieci episodi dei “Drawing restraint”, allestiti presso la Fondazione torinese, in un eccentrico vis-à-vis con due opere di Mario Merz (fino all’11 gennaio).
Barney suscita sempre grande attrazione e, anche se non si è d’accordo con il suo mondo e la sua scelta stilistica – c’è chi lo trova geniale e basta e chi un geniale millantatore – non si può fare a meno di seguirlo nelle acrobazie mentali e visive che propone? “Perché la sua opera confluisce in una grande cosmogonia, onnivora e ibrida”, spiega la curatrice del progetto, Olga Gambari, che ha insistito perché una star del genere non calasse dall’alto sulla città, ma si incontrasse con il pubblico più giovane. E il suo immaginario decisamente estremo ha la forza di saldarsi “a un territorio fisico e umano”, conclude Gambari. Virtù non da poco che gli consentono di sciogliere in un continuum allucinato sublimi immagini di paesaggi, catastrofi che irrompono all’interno del magnifico Chrysler building di New York, improbabili e smisurati corpi di ballo che riempiono navicelle spaziali e piscine luccicanti, flash di città che si susseguono, evocazioni di personaggi reali e immaginari, dialoghi visivi con donne enigmatiche mentre lui si trasforma in fauno, in centauro, in creatura impossibile e tutti intorno si affollano altre immagini e altri personaggi altrettanto surreali e così via inventando. Questo, in estrema sintesi, l’impatto visivo ed emotivo che suscitano i cinque film di “Cremaster”, opera bizzarra fin dal titolo e nella struttura: il nome viene dal muscolo testicolare e la numerazione non è consecutiva, essendo usciti prima il tre e dopo l’uno e il cinque. Ed esagerata anche nella durata: il numero tre dura più di tre ore ed è quello che ha rischiato di mandare fallita la sua gallerista, Barbara Gladstone, che fin da subito diede fiducia a quell’ex campione sportivo che aveva il chiodo fisso di diventare artista.
I “Drawing restraint”, meno noti almeno in Italia, si basano per lo più sulle restrizioni che Barney si autopropone per disegnare: su una baleniera giapponese nel mezzo di una tempesta (era presente anche Bjork), appeso ad una parete da free climbing, imbragato al soffitto, saltando su un tappeto elastico, mettendo in bocca a un pesce (che poi vomita) un pennarello. Una sfida continua, insomma, un po’ per prepararsi alla grande sfida di “Cremater” un po’ perché l’arte, evidentemente secondo lui, vive nella tensione estrema tra possibilità e fattibilità. Dove spesso questi due universi si mischiano e che, dopo la “cura Barney”, non sono più distinguibili.
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