lunedì 27 dicembre 2010

Antonio Ligabue, l’arte difficile di un pittore senza regole


Antonio Ligabue, il cui vero cognome è Laccabue, nasce in Svizzera a Zurigo il 18 dicembre del 1899.

Figlio di un'emigrante italiana, fu dati in adozione ad una famiglia svizzera tedesca che lo affidò a sua volta ad un Istituto per ragazzi difficili da dove fu espulso a sedici anni.

Selvaggio, imprevedibile per il suo rapporto con il mondo e la realtà, per tutta la vita fu considerato un matto e venne espulso in manette dalla Svizzera ed istradato in Italia.




La sua pazzia era solo il suo essere istintivo ed autentico nella vita, come nel suo essere pittore.




Riconosciuto, come il più alto esponente dei Naif italiani, riempie la realtà della campagna lombarda di alberi e foglie di una fantastica giungla popolata di animali domestici e selvaggi.











 ...A Gualtieri Ligabue sopravvive con lavori precari, solo, ossessionato dal suo profilo che non gli piace e che corregge dandosi sassate sul naso.
Con l’ossessione delle donne (si racconta che abbia inciso un gran sesso femminile nel tronco muschioso di un albero) e della moto, la famosa Guzzi rossa con cui scorrazzava e che ora è in mostra. Con i pochi soldi e qualche aiuto compera colori e nascono i quadri dei suoi animali. Un’intera sala è riempita dai suoi cavalli e umili buoi al lavoro o lotte da pollaio fra galli spumeggianti, una natura da cortile fra paesaggi padani, ma punteggiati da casine e campanili tutti svizzeri; un’altra sala è occupata da un’intera giungla di felini, tigri a strisce dai colori intensi, parenti strette di quelle di Mompracem, immaginate da Salgari, o di quelle dei cartelloni da circo, con le fauci gigantescamente aperte.
In altre opere sono i giaguari a balzare verso le prede, tutti un guizzo di muscoli, appaiono nei quadri saltando verso lo spettatore-preda, e offrono lo stesso fremito che dà l’esplosiva uscita di un misirizzi dalla sua scatola di latta. Felini agili in lotte sanguinose, fra resti umani e nuove prede, da scimmie acide, a boa constriptor, alle antilopi, ma spesso la vittoria felina durerà un attimo. Pelose vedove nere in primo piano nel quadro pazientemente attendono il loro turno. Ligabue sogna una giungla fra i boschi del Po, il fiume serpeggia spesso sugli sfondi. “ Ligabue”, afferma Sgarbi, “riesce a mettere l’Africa nella Padania, un sogno che non verrebbe mai a Bossi.” Ma la grande foresta di questi animali selvatici altro non è che le boscaglie lungo il lutulento Po, immaginate con la stessa primitività e forza arcaica di Henri Rousseau il Doganiere. Nell’ultima sala tutti gli autoritratti di Liguabue rafforzano, in decine di varianti, le sue ossessioni. Per potenza, devastazione fisiognomica e ossessione possono esser avvicinati a quelli di Van Gogh. Certo la cifra di Ligabue rimane un intreccio inestricabile di «imagerie» nazional popolare e forza primitiva: sovrana sui suoi autoritratti la mosca, giantesca, pelosa, rilucente nella sua natura sarcofaga e carnaria, quella che nasce sui cadaveri. È il richiamo alla forza cannibale della natura, ben nota al mondo contadino. Ma è anche la metaforica mosca al naso d’un imprendibile folle della pittura...



...Ricoverato più volte in clinica psichiatrica, Antonio Ligabue portava i suoi deliri sulle tele, mostrandoci tigri con fauci spalancate, insetti in ogni tela e scene cruente di lotte animali.
Probabilmente la tigre era proprio la rappresentazione di se stesso, qualche volta vincitore su lepri e gazzelle, qualche volta sopraffatto da scorpioni e scarafaggi giganti.