di Mario
Lunetta
È mancato qualche giorno fa, non
per terremoto ma per malattia – quel cancro che sempre più si rivela il cancer oecumenicus di cui qualcuno parlò
in letteratura negli anni Ottanta – il pittore aquilano Ennio Di Vincenzo. Era
un uomo, Ennio, e un amico carissimo, pieno di coraggiosa generosità, di slanci,
di azzardi di linguaggio anche crudeli. Triturava nelle sue opere straordinarie
di forma densamente plurale appunto la crudeltà del mondo Ne ribaltava la
stupidità in puro dinamismo e in pura fedeltà a una visione laica e curiosa
della vita. Ne accentuava le contraddizioni risolvendole in rischiosa bellezza
priva di aura, attraverso il dominio sempre meravigliosamente stupito di
materiali eterocliti: gli acrilici, i metalli leggeri, le lastre, la carta, la
terracotta, il vetro antisfondamento, e via, e via, come se nulla gli bastasse
di ciò che è natura e di ciò che è prodotto industriale.
Ennio non è più con noi. Non è
più fisicamente con i suoi cari: la moglie Anna Maria Giancarli, poetessa tra le
più inquiete e mordenti della sua generazione; la figlia Alessandra con la sua
intelligenza folletta; l’amato genero. Non è più fisicamente con noi, che gli
abbiamo voluto un gran bene e ne abbiamo amato e sostenuto il lavoro attraverso
gli anni. Sono con noi i suoi quadri, gli oggetti d’arte elaborati e fulminei
che le sue mani e la sua testa hanno messo al mondo con infinita pazienza e
infinito furore; e ci viene da dire, irrefrenabilmente: Ennio caro, ti sei
battuto con tutte le forze della tua intelligenza e del tuo talento contro la
volgarità e la malafede, la superficialità e la sottocultura che sono la
poltiglia immortale in cui siamo immersi: per questo credo ti si possa
considerare un eroe, come Leopardi considerava qualsiasi artista degno del nome.
Addio.
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