Si chiamava Vosdanig Adoian ed era nato il 15 aprile 1904, o 1903, oppure 1905, a Khorkom, nell'Armenia ch'era parte del fatiscente impero ottomano. Infanzia tra campi e armenti. Il trauma dell'abbandono da parte del padre, emigrato in America a cercare pane e sopravvivenza, gli fece perdere, per qualche tempo, la parola. Rimasto con la madre Shushan e due fratelli, fu travolto dalla storia: l'annessione
alla Russia, il genocidio degli armeni, la rivoluzione sovietica, la grande guerra, l'emigrazione forzata tra Armenia e Turchia, miseria, fame, perdita d'ogni certezza. Infine perdita della madre, spentasi d'inedia nel 1919: “Un momento di bruciante tragedia personale intrecciato nell'arazzo della più vasta catastrofe nazionale”. Raggiunta Bat'umi, sul Mar Nero, e su una barca di profughi Costantinopoli, e di qui, via Atene e Napoli, finalmente con la sorella Vartoosh, arriva nel 1920 in America, dal padre operaio. Le lezioni di disegno a Boston, la scoperta di una straordinaria abilità, il passaggio da studente ad insegnante, l'immedesimazione con i pittori da cui imparare, “ero con Cézanne, adesso sto con Picasso”, i primi quadri, l'inizio della ricostruzione d'una propria identità, la firma apposta a un paesaggio urbano, nel 1924, con uno pseudonimo che sarà il suo nome, o quasi: “Arshele Gorky”. Poi, con l'ultima correzione ortografica, l'emergere di un creatore della pittura americana: Arshile Gorky.
Dove nasce l'arte? Questa domanda così profonda e cosmica, alla quale non c'è risposta soddisfacente, sembra interrogare ogni quadro della grande mostra di Gorky alla Tate Modern di Londra, che viene da Boston e andrà a Los Angeles. Certo in Gorky, il pittore che prese il surrealismo parigino e lo trasformò nell'espressionismo astratto americano, la biografia sembra spiegare tutto. Come diceva un altro
armeno-americano, William Saroyan, citato da Mattew Gale nel catalogo della mostra, la diaspora armena ha sempre avuto a che fare con “terremoti, guerre, massacri, carestie”. Ma gli orrori caucasici, attraversati con pena e fatalismo di gioventù, non si vedono nei quadri di Gorky: prima ancora che per la loro importanza, le sue composizioni di “creature biomorfiche ed erotiche”, come le definisce Jackie Wullschlager sul “
Financial Times”, sbalordiscono per la loro bellezza, quasi fossero oggetti da toccare, accarezzare, morsicare. (In Europa, pare, ci sono soltanto otto tele importanti di Gorky, e questo già spiega perché la mostra di Londra sia un'occasione rara). No, benché la biografia conti moltissimo, c'è qualcosa di più profondo che possa spiegare la freschezza, l'originalità, la fantasia artistica di Gorky. Ma che cosa?
La ricostruzione dell'identità di Gorky, a cominciare dal nome, fu complessa e ingenua. Si diceva cugino di Maxim Gorky, lo scrittore rivoluzionario russo, per nascondere le sue origini provinciali, forse senza sapere che pure quello era uno pseudonimo, che in russo significa “amaro”. D'altronde non conosceva che poche parole di russo, così come non aveva mai messo piede in Francia, dove
vantava di avere studiato, o in altre città dove pretendeva d'essere stato allievo di Kandinsky. L'unica città europea che aveva conosciuto, per un solo giorno, era stata Napoli, scalo sulla via dell'America. Si sentiva un outsider, sia socialmente che sessualmente, eppure i surrealisti (“Gente terribile... I mariti fanno l'amore con tutte le mogli degli altri. Le mogli fanno l'amore tra loro. E i mariti tra di loro”), lo sentirono come uno della corrente. André Breton ne elogiò un quadro come “una delle più importanti pitture fatte in America”, ma forse non l'aveva capita: spiegò a Gorky che “l'arte deve sgorgare da una fonte e chi non ha una patria non può dare molto alla cultura”. Pare che Gorky, annuendo, tacesse sulle proprie origini: “La sua vita interiore, segreta, era certamente la sua forza e il suo sacrificio”, scrive la Wullschlager.
C'è un soggetto, divenuto il quadro centrale della mostra, che spiega questa pena segreta. Si chiama “L'artista e sua madre”, e fu dipinto, per anni, in due versioni sucessive. Nel 1912, a Van, la madre Shushan aveva preso il piccolo Vosdanig con sè e s'era fatta fare un ritratto da un fotografo professionista, che aveva poi mandato al marito in America, forse per ricordargli che s'era lasciato alle spalle una famiglia. Quella foto, ritrovata da Gorky molti anni dopo tra le carte del padre, dovette avere per lui l'effetto di un talismano: la riprodusse nella prima versione, in cui diversi dettagli tradiscono la pena per il distacco fatale, e nella seconda, piatta e ieratica come un'icona orientale. Ma se quell'immagine faceva da contenitore dell'arte di Gorky, il contenuto erano i suoi straordinari soggetti biomorfici, simili a ricami sul tessuto della fantasia. E, in fondo, l'ammise lui stesso: “Mi racconto storie, mentre dipingo... Spesso dalla mia infanzia”. E poi: “Mia madre mi raccontava molte storie mentre io schiacciavo la mia faccia, a occhi chiusi, nel suo lungo grembiule. Le storie e i ricami sul grembiule si confondevano nella mia mente. E per tutta la vita hanno continuato a dipanare immagini nella mia memoria”.
Gorky cercava le sue radici, quelle che Breton credeva avesse saldissime, e questa ricerca produceva la geografia fantastica del suo mondo, “Immagine a Kharkom”, “Giardino a Sochi”, “Cascata”. Quadri di una concretezza pittorica quasi alimentare, strati e strati di colore, aggiunti e raschiati, all'infinito, “per ottenere il peso della realtà”. In “L'aratro e la canzone” una figura verticale e un torso femminile nuotano in allusioni di campi e di fienili. Sono paradisi perduti, di cui nessun pittore europeo, sicuro di una propria patria, avrebbe potuto avere nostalgia. Arshile Gorky, l'uomo senza radici, era l'unico che potesse fondare un'arte davvero americana, non solo post-europea. Quando morì suicida, nel 1948, ormai incapace di nascondere il volto nel grembiule della madre, aveva già piantato l'albero della sua eredità: Jackson Pollock, Willem De Kooning, Cy Twombly, solo per dire qualche nome, sono rami della sua pianta. E anche la domanda sull'origine dell'arte, con Arshile Gorky, trova un inizio di risposta: nasce dove la fantasia sostituisce la memoria.