domenica 7 novembre 2010
Lucrezia De Domizio Durini. Il 3 dicembre Parigi.
Anselm Kiefer: I sette Palazzi Celesti
Anselm Kiefer: I Sette Palazzi Celesti
diMarco Tonelli
Sette alte torri pendenti in cemento armato, precarie, rovine in attesa dello schianto finale ma anche vie di accesso verso il paradiso. All’interno di uno spazio vastissimo, un hangar industriale dipinto di nero e completamente sigillato all'esterno da una corazza di metallo color argento. Nessuna finestra getta luce dentro quella che sembra essere diventata un enorme basilica postatomica, un santuario della catastrofe e della resurrezione.
E' così che si presenta, come un miraggio lontano, terrificante e sublime, la grande installazione che Anselm Kiefer ha realizzato a Milano dentro la Breda nel quartiere Bicocca una città nella città, coi suoi enormi capannoni e gli ampi viali alberati, attraversati da tir, gru e vari macchinari.
Quella di Kiefer è una poetica sfacciatamente carica di rimandi simbolici, in linea del resto con tutta la sua ricerca fotografica, pittorica e scultorea, fatta di allusioni cabalistiche, di fremiti naturalistici dell'immaginario tedesco e wagneriano, di combinazioni alchemiche, di rimandi alle Sefiroth od alla storia tragica dell’olocausto e del Nazismo.
Già nel 1969 Kiefer aveva realizzato numerosi scatti fotografici di una serie intitolata Eroische Sinnbilder (Simboli eroici) in cui si ritraeva mentre, di fronte a mari in tempesta, larghe spiagge o a rovine architettoniche (tipici scenari romantici), con stivali e pantaloni simili alle divise delle SS, alzava il braccio assumendo la posa del tipico saluto nazista. E poi nel corso degli anni le sue enormi tele raffiguranti tetre e possenti costruzioni arcaiche come il monumento al pittore ignoto, campi desolati animati da sciami di semi di girasoli, librerie e aeroplani in piombo, opere ispirate alla mitologia germanica, dipinti con le costellazioni fatte di numeri, che alludono alla marchiatura a fuoco sugli ebrei nei Lager e nei campi di sterminio.
I Sette Palazzi Celesti sono però architetture reali, abitabili, pur nella loro pericolosa inagibilità. Composti ognuno da cinque a sette "cabine" sovrapposte e provviste di una apertura, tenute in equilibrio da fogli di piombo messi agli angoli della cabine a mo' di zeppe, queste sette torri di una ventina di metri si pongono come una delle opere più vaste ed imponenti che Kiefer abbia mai realizzato, se si escludono le costruzioni che compongono la sua tenuta di Berjac. Qui infatti, su una collina di trentacinque ettari nel sud della Francia, il paesaggio è contrassegnato da grandi sculture in cemento armato, casematte e serre, collegate tra di loro tramite tunnel sotterranei, come fossero catacombe, vie di fughe, passaggi segreti. A loro modo, anch’essa una grande e misteriosa installazione ambientale.
La suggestiva scenografia delle architetture esposte nell'Hangar Bicocca (un nuovo spazio per l’arte moderna e contemporanea a tutti gli effetti, se si riuscirà a continuare una programmazione, per quanto episodica), mette Kiefer alla pari con le grandi e potenti imprese tecniche, ingegneristiche e tecnologiche realizzate da Richard Serra (ricordate i labirinti spiralici esposti a Bilbao?), Fabrizio Plessi (su tutte Water Fire in Piazza San Marco a Venezia), Louise Bourgeois (Do Undo Redo nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra, con le sue torri agibili e i suoi spaventosi ragni), Christo (gli impacchettamenti di interi edifici, isole e ponti). Alla pari per gigantismo, per coinvolgimento emotivo, per il senso di smisurata grandezza con cui l'artista in genere tenta di toccare il limite dell'umano o i confini dell'esperienza artistica stessa, l'opera di Kiefer mette in scena paure ed ansie millenarie che, se si pensa all'evento delle Torri Gemelle (due salite verso il cielo divenute trappole infernali), appartengono ad un lutto e ad un'ansia di urgente attualità.
E' la zona del rischio, dell'incidente, della minaccia continua di una catastrofe, che I Sette Palazzi Celesti sembrano voler esorcizzare o annunciare. Una scenografia di silenzio tombale, avvolta nel nero, illuminata glacialmente come le quinte di uno spettacolo teatrale, senza che ancora né attori né musica l'abbiano attraversate (non a caso quest’opera ha forti somiglianze con le scene che Kiefer realizzò per ’Elektra di Richard Strauss a Napoli nel 2003, nel teatro San Carlo).
Tra le sette torri, sparse a terra qua e là, soltanto foglie secche, vetri con sopra dipinte quelle inquietanti numerazioni che tante volte sono comparse nelle sue mitologiche costellazioni, e poi ancora cornici impolverate ammassate l'una sull'altra, grosse pietre, anch'esse numerate. Residui di un'umanità senza più corpo, di una memoria priva di immagine, di identità indistinte segnate da numeri, di morti sul campo come foglie secche.
Il ricordo di Joseph Beuys (di cui Kiefer è stato allievo) è pressante, si tocca con mano. E questo aggiunge tragicità all'opera, ma anche volontà magica e rigenerativa, visionarietà e speranza.
Ci si può chiedere se un'opera come questa voglia lasciar tracce della perdita della fede nei grandi sistemi, della morte di Dio annunciata da Nietzsche, del ripensamento della metafisica di Heidegger, oppure non sia piuttosto un'affermazione di questa fede perduta e qui rimessa in campo attraverso complessi riferimenti letterari, che ormai da decenni accompagnano lo sfondo culturale di Kiefer. Ma si avverte comunque che il dubbio, la paura della fine del mondo, l'angoscia dell'esistere alla cieca, in attesa di una luce di là da venire, entrano pesantemente nelle aperture dei cubicoli di queste sette torri o palazzi celesti.
Proprio perché possono essere sollevate domande del genere, riguardo cioè il valore del simbolico e della sua attualità storica, del presente che invoca quotidianamente la grazia dal dolore e dalla tragedia, dei traumi della distruzione, del presagio apocalittico, questi elementi diventano in Kiefer messaggi, non semplicemente allusioni o metafore, ma libri visivi composti da materie concrete, passaggi obbligati per comunicare con un al di là che deve attraversare l’abiezione dell'oggi, il rischio di un crollo improvviso, quello di questi sette palazzi che sembrano reggersi non grazie a calcoli matematici ma per una sorta di inatteso, empirico, umanissimo ed incerto miracolo.
diMarco Tonelli
Sette alte torri pendenti in cemento armato, precarie, rovine in attesa dello schianto finale ma anche vie di accesso verso il paradiso. All’interno di uno spazio vastissimo, un hangar industriale dipinto di nero e completamente sigillato all'esterno da una corazza di metallo color argento. Nessuna finestra getta luce dentro quella che sembra essere diventata un enorme basilica postatomica, un santuario della catastrofe e della resurrezione.
E' così che si presenta, come un miraggio lontano, terrificante e sublime, la grande installazione che Anselm Kiefer ha realizzato a Milano dentro la Breda nel quartiere Bicocca una città nella città, coi suoi enormi capannoni e gli ampi viali alberati, attraversati da tir, gru e vari macchinari.
Quella di Kiefer è una poetica sfacciatamente carica di rimandi simbolici, in linea del resto con tutta la sua ricerca fotografica, pittorica e scultorea, fatta di allusioni cabalistiche, di fremiti naturalistici dell'immaginario tedesco e wagneriano, di combinazioni alchemiche, di rimandi alle Sefiroth od alla storia tragica dell’olocausto e del Nazismo.
Già nel 1969 Kiefer aveva realizzato numerosi scatti fotografici di una serie intitolata Eroische Sinnbilder (Simboli eroici) in cui si ritraeva mentre, di fronte a mari in tempesta, larghe spiagge o a rovine architettoniche (tipici scenari romantici), con stivali e pantaloni simili alle divise delle SS, alzava il braccio assumendo la posa del tipico saluto nazista. E poi nel corso degli anni le sue enormi tele raffiguranti tetre e possenti costruzioni arcaiche come il monumento al pittore ignoto, campi desolati animati da sciami di semi di girasoli, librerie e aeroplani in piombo, opere ispirate alla mitologia germanica, dipinti con le costellazioni fatte di numeri, che alludono alla marchiatura a fuoco sugli ebrei nei Lager e nei campi di sterminio.
I Sette Palazzi Celesti sono però architetture reali, abitabili, pur nella loro pericolosa inagibilità. Composti ognuno da cinque a sette "cabine" sovrapposte e provviste di una apertura, tenute in equilibrio da fogli di piombo messi agli angoli della cabine a mo' di zeppe, queste sette torri di una ventina di metri si pongono come una delle opere più vaste ed imponenti che Kiefer abbia mai realizzato, se si escludono le costruzioni che compongono la sua tenuta di Berjac. Qui infatti, su una collina di trentacinque ettari nel sud della Francia, il paesaggio è contrassegnato da grandi sculture in cemento armato, casematte e serre, collegate tra di loro tramite tunnel sotterranei, come fossero catacombe, vie di fughe, passaggi segreti. A loro modo, anch’essa una grande e misteriosa installazione ambientale.
La suggestiva scenografia delle architetture esposte nell'Hangar Bicocca (un nuovo spazio per l’arte moderna e contemporanea a tutti gli effetti, se si riuscirà a continuare una programmazione, per quanto episodica), mette Kiefer alla pari con le grandi e potenti imprese tecniche, ingegneristiche e tecnologiche realizzate da Richard Serra (ricordate i labirinti spiralici esposti a Bilbao?), Fabrizio Plessi (su tutte Water Fire in Piazza San Marco a Venezia), Louise Bourgeois (Do Undo Redo nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra, con le sue torri agibili e i suoi spaventosi ragni), Christo (gli impacchettamenti di interi edifici, isole e ponti). Alla pari per gigantismo, per coinvolgimento emotivo, per il senso di smisurata grandezza con cui l'artista in genere tenta di toccare il limite dell'umano o i confini dell'esperienza artistica stessa, l'opera di Kiefer mette in scena paure ed ansie millenarie che, se si pensa all'evento delle Torri Gemelle (due salite verso il cielo divenute trappole infernali), appartengono ad un lutto e ad un'ansia di urgente attualità.
E' la zona del rischio, dell'incidente, della minaccia continua di una catastrofe, che I Sette Palazzi Celesti sembrano voler esorcizzare o annunciare. Una scenografia di silenzio tombale, avvolta nel nero, illuminata glacialmente come le quinte di uno spettacolo teatrale, senza che ancora né attori né musica l'abbiano attraversate (non a caso quest’opera ha forti somiglianze con le scene che Kiefer realizzò per ’Elektra di Richard Strauss a Napoli nel 2003, nel teatro San Carlo).
Tra le sette torri, sparse a terra qua e là, soltanto foglie secche, vetri con sopra dipinte quelle inquietanti numerazioni che tante volte sono comparse nelle sue mitologiche costellazioni, e poi ancora cornici impolverate ammassate l'una sull'altra, grosse pietre, anch'esse numerate. Residui di un'umanità senza più corpo, di una memoria priva di immagine, di identità indistinte segnate da numeri, di morti sul campo come foglie secche.
Il ricordo di Joseph Beuys (di cui Kiefer è stato allievo) è pressante, si tocca con mano. E questo aggiunge tragicità all'opera, ma anche volontà magica e rigenerativa, visionarietà e speranza.
Ci si può chiedere se un'opera come questa voglia lasciar tracce della perdita della fede nei grandi sistemi, della morte di Dio annunciata da Nietzsche, del ripensamento della metafisica di Heidegger, oppure non sia piuttosto un'affermazione di questa fede perduta e qui rimessa in campo attraverso complessi riferimenti letterari, che ormai da decenni accompagnano lo sfondo culturale di Kiefer. Ma si avverte comunque che il dubbio, la paura della fine del mondo, l'angoscia dell'esistere alla cieca, in attesa di una luce di là da venire, entrano pesantemente nelle aperture dei cubicoli di queste sette torri o palazzi celesti.
Proprio perché possono essere sollevate domande del genere, riguardo cioè il valore del simbolico e della sua attualità storica, del presente che invoca quotidianamente la grazia dal dolore e dalla tragedia, dei traumi della distruzione, del presagio apocalittico, questi elementi diventano in Kiefer messaggi, non semplicemente allusioni o metafore, ma libri visivi composti da materie concrete, passaggi obbligati per comunicare con un al di là che deve attraversare l’abiezione dell'oggi, il rischio di un crollo improvviso, quello di questi sette palazzi che sembrano reggersi non grazie a calcoli matematici ma per una sorta di inatteso, empirico, umanissimo ed incerto miracolo.
Mario Trimeri è il secondo dopo R.Messner a salire le Seven Summits
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